Il mito di chi si ferma è perduto: cosa fare dopo gli studi?


  • 19-04-2022
  • Sottotesi.it

Di Vidal Gerardo Cuba Gelsi

 

Ad un certo punto della propria vita ci si trova davanti a una scelta complessa perché piena di possibilità: cosa fare dopo gli studi?

Questa decisione non ha (e non dovrebbe avere neanche nelle chiacchiere) un’opzione migliore dell’altra, perché opzioni diverse sono tutte ugualmente rispettabili. 

Mettiamo che questa scelta sia proprio al termine del primo ciclo di studi universitari (triennali); ti stai per laureare e al pranzo con i parenti ti chiedono “cosa farai dopo Cicciobello?”. E tu non sai se buttarti nel mondo del lavoro o dalla finestra; emanciparti economicamente e diventare a tua volta “adulto” autorizzato a fare domande imbarazzanti, o magari continuare gli studi per specializzarti in un lavoro che ancora non sai se sarà quello dei tuoi sogni (che è un po’ come buttarsi nel pozzo della fortuna al posto della monetina). Insomma, qualunque sia la scelta ti diranno che “chi si ferma è perduto”; per cui devi scegliere.

Dalla mia esperienza di studente universitario, ho capito che i miti che girano intorno al mondo studentesco sono parecchi: non esistono solo maledizioni da schivare se vogliamo laurearci; già durante i festeggiamenti con la corona d’alloro si percepisce l’ombra della fatidica Decisione. Tra un boccone e l’altro, proprio in quel pranzo con parenti e amici, il mito di non arrestare gli studi si alimenta nelle aspettative e nei consigli che ci vengono dati nel generoso, quanto spasmodico, tentativo di esserci d’aiuto. Alcuni di loro, solitamente quelli che l’università non l’hanno fatta, affermano che “chi si ferma è perduto”, che “appena vedi i primi soldi, anche se pochi, abbandoni lo studio”, rincarando la dose con “non fare come me, NON MOLLARE!” (spesso con voce anziana e trasalita).

Il mito, alimentato da queste frasi, si conclude in un’esagerata tragedia greca: abbandonare il percorso di studi equivale a “condannarsi” a una vita mediocre e senza successo pubblico; come dire che tutti gli anni di studio passati sono medagliette che se smetto di indossare non hanno più valore. Piuttosto, al mio terzo anno di studi e quasi prossimo alla Decisione, io ho capito che chi si ferma in realtà non è perduto; lo fa per cambiare direzione, prendere un’altra strada secondo alcuni non altrettanto ricca, remunerativa e sicura.

C’è anche un film diretto da Sergio Corbucci e interpretato da Totò e Peppino De Filippo, proprio intitolato “Chi si ferma è perduto”, in cui i due protagonisti e colleghi tentano con ogni mezzo a loro disposizione di ottenere il posto vacante lasciato dal loro defunto superiore. La morale del film alla fine fa capire che anche chi fa troppo può cadere a terra inciampando sulle proprie ambizioni, e i due personaggi vengono trasferiti controvoglia in Sardegna.

In questi tre anni di università a Bologna di studenti e lavoratori (o entrambe le cose) ne ho conosciuti tanti e con le storie più disparate. Nicola, che dopo aver lavorato per dieci anni come bagnino d’estate e cameriere d’inverno, ha iniziato la triennale in filosofia continuando a rientrare in Sicilia per lavorare durante la stagione estiva. Franco, che dopo aver rinunciato agli studi in ingegneria ambientale, si è prima arruolato come militare per poi iniziare nuovamente con giurisprudenza. Beatrice, al contrario, una decisione sul suo futuro non l’ha ancora presa ma ha grandissima passione per lo studio, e per non stare con le mani in mano vuole lavorare. Martina è una "vecchio stampo", una che ha più anni di lavoro che sui banchi di scuola, e ora che è stabile economicamente inizierà un corso di laurea.

Storie come queste portano a sfatare il mito del “chi si ferma è perduto”, semplicemente perché stare con le mani in mano non è per la nostra generazione né una caratteristica propria né un’opzione possibile. Oggi più che mai abbiamo sviluppato la capacità di inventare nuovi lavori, proprio perché il titolo di studio non è più imprescindibile quanto lo è diventata la creatività. Questo è il valore del nostro tempo, e sminuirlo significa restare attaccati a una tradizione che ha paura del nuovo e crede sicure solo strade già battute.

In fondo la conoscenza è una virtù versatile, e per chi ha avuto la passione per lo studio, ho potuto vedere come questa torna, resta o semplicemente si trasforma. Ogni esperienza che si fa nella vita arricchisce quel bagaglio culturale che abbiamo iniziato alle elementari con uno zaino più pesante del nostro esile corpicino, e ognuno ha il pregio di possedere quel personale sapere specifico.

Mi rivolgo quindi a coloro che rimpolpano il mito alle riunioni culinarie di famiglia: dateci la possibilità di dimostrare che siamo figli del nostro tempo, e dentro a questo tempo sappiamo come agire; che tanto peggio delle decisioni prese fino ad ora è difficile fare.