Storie di Universitaria Follia


  • 04-11-2017
  • Sottotesi.it

Penso spesso ai miei cinque anni all’università. Come dimenticare la sveglia alle 6:10 del mattino e il treno raramente puntuale, che dopo un viaggio interminabile, scandito da ben quattordici fermate, apriva le porte a un mondo sotterraneo. Scendevo di corsa, pronta a scattare, inseguendo o superando altri studenti o lavoratori che come me si affrettavano verso le scale mobili fino ai tornelli della metropolitana, per essere ancora una volta risucchiati dalla folla, schiacciati come sardine, in vagoni già inspiegabilmente affollati. Trovare un posto a sedere era un’impresa ardua, soprattutto nelle prime ore del mattino. Fortunatamente in poche settimane avevo già collaudato la mia tecnica personale per mantenermi in equilibrio nonostante le brusche frenate e le improvvise accelerazioni del macchinista. Con la mia tracolla da un lato e le gambe leggermente divaricate, bilanciavo il mio peso facendo presa sul suolo e oscillando in direzione opposta ai movimenti del mezzo. Mi sembrava una strategia più avventurosa che avvinghiarmi a un qualunque appiglio insieme ad altre decine di persone.

Considerando che a Milano la metro, e in particolare la linea rossa, passa a intervalli di tempo incredibilmente ravvicinati, di un paio minuti di distanza al massimo, era una coincidenza straordinaria salirci con un balzo un secondo prima che si chiudessero le porte e trovarmi di fronte la mia più cara compagna di corso, proprio in quel vagone, proprio in quel momento. La fase conclusiva del viaggio diventava così più piacevole e compensava a suon di chiacchiere l’ora di silenzio trascorsa sul treno, contemplando il paesaggio nebbioso fuori dal finestrino o leggendo senza sosta dal primo all’ultimo minuto, sollevando di tanto in tanto la testa solo per accertarmi di quanto mancasse alla mia fermata. Finalmente all’aria aperta, a dividermi dall’università vi era una camminata di cinque minuti, decisamente la migliore modalità di trasporto dal momento in cui uscivo di casa quasi un’ora e mezza prima.

Se il viaggio era un’odissea, arrivare a destinazione mi rendeva felice. Ebbene sì, adoravo la vita universitaria. Studiare è sempre stata la mia attività preferita e per mia fortuna avevo scelto il corso di studi che rispecchiava al massimo i miei interessi: Mediazione Linguistica e Culturale. Con lezioni da scegliere in base alle proprie lingue curriculari, le esercitazioni da incastrare negli orari disponibili e il dramma di non possedere il dono dell’ubiquità per assistere a due corsi che avevano luogo nello stesso momento, non c’era mai tempo di annoiarsi. Gli scambi di appunti o di registrazioni audio sopperivano a questi problemi organizzativi e a fine giornata l’alone di inchiostro blu che mi ritrovavo sulla parte laterale della mano, dalla metà del mignolo fino all’inizio del polso, era la prova che avevo preso una soddisfacente quantità di appunti. Scrivevo fitto, con la mia grafia piuttosto piccola e sigle o abbreviazioni di mia invenzione. È sorprendente come la vita universitaria stimoli la nostra creatività e inizi a gettare i semi di un’incipiente capacità di problem solving. Forse ancor più sorprendente era il fatto che le mie compagne, a cui nei casi di bisogno elargivo generosamente i miei quaderni dalle copertine fruttate, non solo non si lamentassero dei miei minuscoli caratteri, ma li decifrassero senza problemi già dal primo semestre. Sarà stato l’effetto del nostro spirito di cameratismo? O forse si erano iscritte a mia insaputa a un corso di interpretazione di geroglifici? Qualunque sia la spiegazione, non c’è dubbio che per me l’università è stata anche un’occasione per trovare degli ottimi amici. Nel nostro piccolo circolo provenivamo ognuna da una regione diversa: Varese, Milano, Bergamo, Mantova, per poi ampliare ancor di più questa nostra rete geografica negli anni della specialistica, quando si aggiunsero le nuove matricole e nuove amicizie di Piacenza, Forlì, Teramo, Catania e altre ancora. Quanti più semestri ci lasciavamo alle spalle, più affiatati diventavamo. Competitività ed egoismo sono due concetti che per fortuna non ho mai sperimentato in università. Ormai si è adulti, responsabili delle proprie azioni e consapevoli del proprio impegno, e invece di rimuginare con invidia o rancore sull’esito degli esami si sdrammatizza sulle proprie disavventure o ci si complimenta con i più bravi. L’università è aiutarsi a vicenda, scherzare, darsi appuntamento per un caffè tra una lezione e l’altra, sedersi insieme per il modesto pranzo portato da casa, che magari si è schiacciato sotto il peso dei libri. L’università è condividere le stesse speranze, candidarsi insieme a uno stage interno e gioire per essere stati selezionati entrambi. L’università è sostenersi il giorno di un appello, anche se noi quell’esame l’abbiamo già fatto, solo per dare un piccolo incoraggiamento e tranquillizzare gli animi più inquieti. Uno tra i ricordi più belli che serbo ancora della mia vita universitaria è “Il Giovedì di cucina”. A turno, ogni settimana promettevamo di preparare un dolce e condividerlo insieme all’ora buca. A inaugurare la tradizione era stata una deliziosa cheesecake di fragole, per poi passare ad altre golose specialità, tra cui il mio plumcake alla nutella, che per mia somma gioia riscosse un grande successo. Sono queste le amicizie rimaste vive nonostante il passare degli anni. Le circostanze della vita e il nostro indirizzo di studi ci hanno portato lontano e sparsi addirittura su continenti diversi. Non ci vediamo spesso, con alcuni l’ultimo incontro risale al giorno della laurea, ma all’improvviso ci scriviamo per dei ragguagli sulle nostre avventure e la mente torna a quegli anni spensierati e ai bei momenti condivisi, che disegnano sul viso sorrisi di nostalgia.

Gli insegnamenti migliori che ho ricevuto in università non necessariamente avevano a che fare con gli specifici argomenti oggetto di esame. Porto con me il ricordo di eccellenti professori, non solo competenti nel loro campo di studi, ma anche all’altezza delle più profonde lezioni di vita. Non dimenticherò mai il mio corso preferito, “Culture Ispanofone”, né le due professoresse cha con passione ed entusiasmo ci stupivano a ogni lezione con una perla di saggezza o uno spunto di riflessione. Le sei ore a settimana sembravano non bastare mai. Il polso non riusciva a mantenere il ritmo dell’incessante fiume di parole che proveniva dalla cattedra. La loro capacità di parlare senza sosta ci faceva sorridere e scambiare qualche occhiata divertita, eppure chiudevamo i quaderni soddisfatti, con una maggiore consapevolezza del mondo e un invito a ragionare oltre gli schemi e non fermarci davanti alle barriere. Si trattava, dopotutto, dello stesso messaggio dell’intero corso di studi, che ha fatto di me una laureata, ma anche e soprattutto una cittadina globale. Grazie alla mia scelta universitaria ho imparato ad andare oltre i luoghi comuni, a  cercare con lo sguardo l’orizzonte, a non considerarlo un limite ma un’opportunità, a esplorare e scoprire realtà diverse, con la ferma convinzione che l’incontro con l’Altro è un’occasione di arricchimento per la crescita del sé.

Erano soprattutto i corsi storia e cultura a stimolare il mio più grande interesse. Se in passato l’intellettuale era considerato un aristocratico chiuso nella propria torre d’avorio, oggi l’università cerca il contatto e il confronto la realtà. La crisi economica, l’immigrazione clandestina, la tecnologizzazione del mondo, la ricerca delle origini, il riscatto del passato: sono questi solo alcuni dei temi sorprendentemente attuali che ho affrontato a lezione, tra filmati, discorsi politici, opere letterarie e articoli di ricercatori. L’università ha stimolato la mia voglia di sapere, alimentandola non in un circolo fine a sé stesso, ma in una rete di connessioni e conoscenze con cui indagare e comprendere meglio la società.

Quando si avvicinavano gli appelli d’esame, prevaleva di gran lungo lo studio matto e disperatissimo che ogni studente di tutto rispetto ha ereditato dal caro Leopardi. Le prime prove iniziavano dopo il ponte dell’Immacolata. Erano i temuti parziali scritti, che alleggerivano il carico dell’orale. Potevano capitare esami un giorno di fila all’altro oppure nello stesso giorno. Lo studente deve essere pronto a tutto e affrontare la sfida con indomito coraggio. Dopo le vacanze di Natale era bello rincontrarsi in una fredda giornata di Gennaio, avvolti in sciarpe e giacconi, per presentare i primi esami del semestre. Normalmente iniziavano alle nove del mattino, ma l’orario di chiusura era indefinito. Nei casi estremi, poteva addirittura protrarsi al giorno successivo. Il motivo? L’impressionante affluenza di studenti che si immatricolavano a Mediazione Linguistica e Culturale. Ammetto che ai primi esami, ancora inesperta dei segreti meccanismi dell’università, dovetti sorbirmi cinque o sei ore di attesa prima che arrivasse il mio turno. È pur vero, tuttavia, che sbagliando s’impara e presto mi costrinsi a elaborare una strategia di azione. Se c’era una cosa che non sopportavo, dopotutto, era alimentare l’agitazione e con essa l’impressione di non ricordare nulla per colpa di un compulsivo e ossessivo ripasso il giorno stesso dell’esame. Dovevo essere tra i primi a essere convocati dal professore o il mio cervello avrebbe retto a fatica lo stress dell’incertezza. Il trucco, o meglio, l’unica soluzione disponibile, era aspettare lo scoccare della mezzanotte il giorno di apertura delle iscrizioni all’esame. Il processo avveniva telematicamente. Attraverso il nostro portale di studenti, accedevamo alla sezione riservata agli appelli per riservare la nostra presenza. I più veloci davanti allo schermo si guadagnavano l’onore di un esame lampo. In piena notte per i corsi più frequentati, di prima mattina per quelli con un pubblico più modesto, procedevo con il rituale di iscrizione, il cui obiettivo era conquistarmi la terza o quarta posizione nell’elenco. Era una mossa prettamente psicologica, ma è forse questo il bello della vita dello studente, che riserva una parte anche piccola delle sue giornate a elucubrazioni e calcoli astratti su statistiche, probabilità e tattiche vincenti. Da Maggio a Settembre, in occasione degli esami finali, queste potenzialità si esprimono al massimo grado e non sono rari i piani congiunti, elaborati in gruppo, per proporre la migliore strategia di studio, identificare possibili trappole escogitate dalla mente superiore del professore e condividere punti forti e debolezze perché tutti abbiano una visione il più completa possibile degli argomenti coperti dall’esame.

Ne ho sostenuti circa quaranta in tutta la mia carriera universitaria, senza contare le prove intermedie o di fine modulo in cui si suddividevano gli esami annuali di lingua. A proposito, mi sono specializzata in inglese e spagnolo, una combinazione gettonata che mi ha permesso di frequentare gran parte delle lezioni con gli amici di sempre. Di professori di lingua ce n’erano davvero tanti, del corso ufficiale o delle esercitazioni, assistenti o esperti in traduzione, italiani o stranieri. Tra aneddoti di vita vissuta, battute nella loro lingua e gaffe degli studenti, anche nella più seria e impegnativa delle lezioni non mancava qualche episodio divertente o un breve momento di svago, in cui il professore lasciava in un angolo la maschera di autorità imposta dal sistema per mostrarsi in tutta libertà come semplice persona, capace di ridere, scherzare e farsi amare nel salone. È così che un professore entrava nel cuore dei suoi studenti, dove lasciava un segno indelebile non solo per le nozioni trasmesse ma anche per i racconti condivisi, la capacità di ascoltare e la disponibilità di dare una mano. I migliori professori non sono macchine del sapere, bensì uomini e donne competenti ed empatici. Ne ho incontrati molti nel polo di Sesto San Giovanni, che per cinque anni è stata la mia seconda casa. Soprattutto nelle giornate invernali capitava di varcare la soglia d’ingresso quando il sole era sorto da un’ora o poco più e uscire con la faccia stravolta ma contenta quando poco mancava all’imbrunire. Ne valeva la pena, come di tante altre esperienze vissute tra quelle mura. Quella che più ci esasperava e faceva ridere allo stesso tempo era precipitarsi da un salone all’altro durante il quarto d’ora accademico. Perché tanta fretta? Perché per i corsi principali anche la più capiente delle aule poteva rivelarsi inspiegabilmente piccola. Se si entrava con qualche minuto di ritardo, l’unico posto a sedere ancora disponibile era il portaombrelli, una soluzione di fortuna, non precisamente comoda dopo i primi trenta minuti. La regola d’oro, dunque, era pianificare le pause pranzo, merenda o toilette a seconda dell’orario giornaliero. Si vivevano ore intense, tra diapositive, fotocopie, incontri fugaci nei corridoi, appuntamenti con i tutor in orario di ricevimento, in quel quarto piano che dominava dall’alto il complesso universitario e nelle fantasie di molti studenti rappresentava il rifugio segreto dei professori, nascosti dietro le pigne di libri e riviste che coprivano gran parte delle loro scrivanie.

Non ci si fermava mai, in università, neanche quando l’ultima lezione giungeva al termine. Guardavo l’orologio con un’espressione assorta e facevo i miei rapidi conti. Con un treno ogni mezz’ora, una manciata di minuti poteva fare la differenza. Le due opzioni che normalmente mi si prospettavano erano prendermela con eccessiva calma e aspettare con simulata pazienza il treno successivo, immersa nella solitudine e nel freddo della stazione sotterranea, oppure sfrecciare fuori dall’università salutando in fretta le mie compagne. Scambiavo un’occhiata furtiva con la mia migliore amica, che conoscendomi bene anticipava le mie intenzioni. “Vai di corsa?”, domandava, e nella maggior parte dei casi la mia risposta era un combattuto “sì”. “Andiamo!” mi diceva, e sorridendole piena di gratitudine prendevo la tracolla e a passo rapido percorrevo insieme a lei il cammino che ci separava dalla fermata della metro. Superavamo sul marciapiede, chiacchieravamo, facevamo esercizio. Ora che rivivo questi momenti, mi emoziona pensare cosa potesse fare un’amica per me. Continuavamo con i nostri racconti per i dodici minuti circa di metropolitana e quando scendevo con una falcata e mi mettevo a correre verso i binari del treno, sapevo che dal vetro sorrideva divertita della mia iperattività. Mentre mi fiondavo verso i tornelli in direzione opposta al tragitto della mattina, il rumore di un treno che frenava dava ancora più forza alle mie gambe, che non corsero mai così veloci come in stazione a Milano. Scendevo i gradini due alla volta e confidavo che il controllore mi vedesse e mi desse il tempo di salire. Un paio di volte lo persi per un soffio, ma in genere i miei scatti andavano sempre a buon fine. Seduta come sempre vicino al finestrino, tiravo un sospiro di sollievo che, combinato all’effetto del fiatone, si prolungava per tre o quattro fermate circa. Ce l’avevo fatta. Stavo tornando a casa. Eppure la mente e il cuore volavano già al giorno successivo. Mi aspettavano amici speciali, libri da sfogliare, momenti unici e irrepetibili che avrei portato sempre con me.  

Che dire? Per me l’università è stata una scelta di vita. Se potessi tornare indietro, non esiterei un istante e seguirei lo stesso cammino, con la stessa gioia e lo stesso entusiasmo.